Cattafi: la poesia come "viaggio" di resistenza al nulla
Una copia trovata per caso su una bancarella, un circolo letterario nel retrobottega, un incontro sfiorato: il "viaggio" nella poetica cattafiana, il ricordo di Antonio Di Mauro.

Ho incontrato la poesia di Cattafi come per caso. Studente liceale, già innamorato della poesia, già svezzato di quella dei classici, entusiasmato da quella dei “moderni”, cominciati a conoscere con l’uscita a metà anni Sessanta dei volumi «Oscar» Mondadori con le poesie di Ungaretti, Quasimodo, Cardarelli, trovo inaspettatamente in una bancarella di antiquariato librario, tra i volumi di vecchie edizioni di opere di narrativa e saggistica, una copia, forse addirittura una prima edizione, ancora intonsa, della storica antologia Quarta generazione. La giovane poesia (1945-1954), edita dalla Libreria Magenta Editrice nel 1954. Non sapevo ancora di questa pubblicazione, ma molto incuriosito l’acquistai subito, per poche lire tra l’altro. E qui avvenne la scoperta: tra i nomi di poeti conosciuti, pochi per letture antologiche, il resto per mera informazione, quali Pasolini, Turoldo, Zanzotto, Scotellaro, Spaziani, Erba, ci trovai quello di Cattafi, antologizzato con undici poesie del periodo ’46-’51. L’attrazione nacque subito. Così, debitamente informatomi, seppi dell’uscita nel ’64 dello straordinario L’Osso, l’anima, che andai a recuperare subito con l’aiuto di un amico libraio. E il mio “viaggio” nel “viaggio” poetico di Cattafi ebbe inizio per non finire mai.
In seguito, il risaputo silenzio del poeta, i miei impegni di studente universitario, crearono un lungo periodo di distrazione, fino a quando nell’autunno del 1972 non lessi con piacevolissima sorpresa un bellissimo articolo di Carla Stampa, dal titolo Il poeta dello Stretto, apparso su «Epoca» del 19 Novembre, con in testa una magnifica foto in bianco e nero di Cattafi, pipa in bocca, appoggiato ad una balaustra di un terrazzo dalla cui vista si ammirava il porto di Messina e sullo sfondo lo Stretto. Naturalmente, l’acquisto de L’aria secca del fuoco, edito ne «Lo Specchio» di Mondadori nel marzo di quell’anno, fu immediato. La ripresa del “viaggio” mi incollò al libro per più di un anno, con letture e riletture, tanto che nell’ottobre dell’anno successivo, il 1973, partito per il servizio militare di leva con destinazione Messina, portai il libro con me tra quelli necessari alla preparazione di esami universitari. E qui avvenne l’impensabile sorpresa. Durante le pomeridiane ore di libera uscita, girando per le vie del centro messinese scoprii in via Tommaso Cannizzaro la storica Libreria dell’OSPE. Attratto dalla vetrina d’esposizione, quasi ad ogni uscita non mancavo di tornare a soffermarmi a scrutare le novità librarie esposte, fino a quando, una sera, si affacciò sull’uscio proprio il titolare, il poeta dialettale Antonio Saitta, che sicuramente mi aveva già notato da un po’ e forse se n’era anche incuriosito. Mi invitò ad entrare. Chiese di me, della mia provenienza, dei miei studi, delle mie passioni letterarie; mi raccontò che periodicamente il suo retrobottega, a chiusura della libreria, diventava un piccolo circolo letterario, con la presenza di notevoli intellettuali, letterati, tra i quali Giuseppe Miligi e, di tanto in tanto, quando non era in viaggio, il poeta Bartolo Cattafi, tornato a vivere in Sicilia, nel territorio di Barcellona Pozzo di Gotto, dove era nato. Preso da conseguente, normale entusiasmo manifestai la mia attrazione per la poesia di Cattafi, confidandogli che avevo portato con me il suo ultimo libro di versi. Il Saitta, forse ammirato, si lasciò scappare la promessa che se avesse saputo della venuta di Cattafi ad uno dei prossimi incontri nel suo letterario retrobottega me lo avrebbe fatto sapere, e a questo proposito mi chiese il numero di telefono della fureria della mia caserma. Purtroppo il mio trasferimento alla destinazione definitiva, Catania, nei primi giorni di dicembre, fece sì che quell’incontro sperato non avvenisse, però il colloquio con il Saitta, i suoi riferimenti alla personalità di Cattafi, alle sue singolari doti umane, e naturalmente alle peculiarità del poeta, crearono in me un’impressione permanente, come se lo avessi realmente incontrato. Un motivo in più, questo, per continuare il mio viaggio, senza ulteriori soste, nella sua opera poetica: nel corso dei decenni successivi, fino ad oggi, credo di aver scoperto un significato, o dei significati, che vanno colti nella profondità di quella tematica del “viaggio” emergente in Cattafi e ampiamente indagata dalla critica, collegandoli per mia personale convinzione, concettualmente e suggestivamente, alle parole di Emil Cioran nel saggio La tentazione di esistere: «…dobbiamo soprattutto, forgiando in noi un’altra morte, incompatibilmente con le nostre carogne, acconsentire all’indimostrabile, all’idea che qualcosa esista…».
Il destino di viaggiatore Cattafi lo portava nel nome: Cattafi è la denominazione di una frazione di San Filippo del Mela (Me), poco distante da Barcellona. A questo luogo, secondo uno studioso, il nome sarebbe derivato dall’essere stato nell’antichità, precisamente in età minoica, il quartiere, presso la primitiva industria metallurgica di Diana Facellina, dove avevano stabilito la loro opportuna sede di convegno antichissimi quanto misteriosi mercanti cretesi chiamati Ktefiu. Riesce, dunque, quanto meno suggestivo pensare al “poeta-viaggiatore” Cattafi quasi per una predestinazione, che è poi diventata ragione esistenziale e poetica. A questo proposito vengono in mente i versi iniziali di Anatra azzurra, una poesia della prima raccolta Le mosche del meriggio (1958): «Anatra azzurra, limpida amica, / partiremo dalle canne di novembre / quando spari scuri circondano il lago / e le nubi proseguono deserte». È stata infine la lettura di Segni, il secondo libro postumo, a suggerirmi una interpretazione del significato del viaggio legato all’idea di resistenza. Quello del poeta Cattafi è stato un percorso di scrittura che alla fine, superati tutti i rischi della nullificazione del segno, conduce al “miracolo” di una metamorfosi finale: il corpo scrivente si tramuta in corpo scritto. Questo il senso ultimo del viaggio. Una ideale transustanziazione del “corpo viaggiante” del poeta in “corpo scrivente”, infine “corpo scritto”, attraverso il passaggio totale della sostanza vivente in sostanza scrivente, scritta.