Filippo Orlando
 08/07/2022

Nel 2017 mi sono iscritto ad un corso di giornalismo perché in maniera temeraria credevo, o meglio credevamo, io e miei compagni, ci potesse far accedere in qualche modo alla professione o quanto meno avvicinarci. Metaforicamente come le bocce con il boccino. Con il tempo ho capito che la parte più importante di questa esperienza è stata quella di scrollarci quella timidezza e quel senso di pudore buttandoci nella mischia, fra la gente, senza il timore di cercare, di domandare. In particolare me ne sono reso conto una mattina in cui dovevamo intervistare alcune persone in giro per la città. Noi gli mostravamo delle fotografie, tutte provenienti da una selezione tra gli eventi più decisivi del Novecento e dei primi anni duemila, e ciascuno degli intervistati doveva raccontare quali impressioni quella determinata immagine gli rievocava: in quel momento, loro estraevano casualmente una foto dal mazzo e noi ci sentivamo dei raminghi smerciatori di ricordi.

Un pensionato che si aggirava per le strade di Torino attorno a Piazza San Carlo estrasse dal mazzo la foto dell'auto di Carlo Alberto Dalla Chiesa, trivellata dai colpi il tre settembre del 1982 in via Carini con all’interno i corpi del Generale e della moglie Emanuela Setti Carraro.
Arturo era il nome della nostra prima voce fuori campo, del nostro corrispondente in differita di quasi quarant’anni. Ci disse che anche lui era in Sicilia in quei giorni e che a scuoterlo fu l’uso del Kalashnikov per l’omicidio, il ricorso ad un’arma da guerra. Per le strade di Palermo la mafia aveva colpito lo Stato in una delle sue figure chiave, e lo aveva fatto con un mitra di grosso calibro.

Al nostro secondo intervistato toccò una fotografa di cinquantadue giorni prima rispetto all’omicidio Dalla Chiesa. La contrapposizione di sentimenti rispetto alla precedente era frastornante. Quella era l'immagine dello stupore, della disperazione, questa era la cartolina della gioia, di una condizione di euforia tanto rumorosa da riempire per sempre i nostri ricordi. La pellicola mostrava Dino Zoff che alzava la Coppa del mondo verso il cielo dello Stadio Santiago Bernabeu e vicino a lui Claudio Gentile, immortalato con la bocca urlante e la mano sinistra alzata come volesse scortare il trofeo fin lassù. A pescare la notte di Madrid del '82 è stato Daniele, portinaio di una palazzina di via Ottavio Assirotti, zona Quadrilatero. Aveva due occhi stretti e accesi che si muovevano vispi in un viso contornato dalle rughe. La bocca gli si schiacciava sul mento, così sottile che sembrava disegnata da un bambino. Non disse nulla, se non nome e professione. Prese la fotografia e la osservò sospirando e accarezzò il viso di Zoff. Ripercorse quell’estate del 1982 con frasi smilze e brevi. Aveva ventotto anni e dai primi di giugno aiutava lo zio con la sua attività: traslochi e sgomberi procedevano lenti perché c’era il mondiale spagnolo, così Daniele e compagni dovettero vedere quasi tutte le partite in case diverse. L’esordio con la Polonia il quattordici di giugno erano in uno stabile in zona San Salvario, mentre durante i due pareggi per 1-1 con Camerun e Perù stavano sgomberando un negozio in centro. Stavano giocando un proprio mondiale che si teneva per le vie di Torino: paradossalmente la Nazionale dal suo buen ritiro in Galizia si era spostata meno di loro in quei giorni, disputando tutte le prime partite a Vigo.

Un trasloco in un villino in zona Crocetta concise con la gara contro l’Argentina, la prima del secondo gironcino: quel giorno dovevano portare via tutto ma il proprietario di casa decise di lasciare solo un divano e il televisore per vedere la partita. Siccome faceva parecchio caldo, a portare il ventilatore ci pensò un anziano vicino con l’abitudine di ricalcare la telecronaca ripetendo i nomi argentini più esotici e con una chiara predilezione per Ardiles. Quel pomeriggio a fare da suppellettili a quell’ambiente disadorno ci pensarono Tardelli e Cabrini e si era così ad un passo dal traslocare a Barcellona per la semifinale.

Le ultime tre partite le vide a casa con i soliti due compagni di traslochi e lo zio. Del Brasile Daniele ci cita a memoria quel fantasmagorica zona mediana presidiata da Socratès, Cerezo, Zico, Falcao, che per leggiadria ed eleganza sembravano quattro fenicotteri. La semifinale con la Polonia fu il teatro di quella convinzione granitica che alla fine saremmo arrivati in finale. La partita fu vissuta con una certa audace spensieratezza che si trasformò in un motivetto ritmato dopo il secondo gol di Paolo Rossi: “Hanno ammazzato Pablito ma Pablo è ancora vivo”.

Tutto questo percorso disseminato di mobili e stoviglie, di case piene e case vuote, di Ardiles e Boniek, portarono alla notte dell’undici luglio. “Anche quest’ultima gara la vedemmo a casa. All’inizio eravamo contrariati, per una questione scaramantica, perché si aggiunsero alcuni amici di mio zio che non facevano parte del gruppo durante le partite precedenti. Ricordo che al goal di Altobelli uno di questi corse fuori e lo ritrovammo solo il giorno dopo: la partita non era ancora finita, mancavano dieci minuti. Al fischio finale corremmo poi tutti, con la gioia di Tardelli e lo spirito indomito di Bruno Conti. Arrivati in Piazza San Felice, ci tuffammo nella fontana. Abbiamo corso tutti quella notte, pure mio zio e mio padre, e se non ci fosse stata la fontana chissà per quanto avremmo corso ancora//.