Nell'universo di Kiarostami
Un tragitto attraverso la cinematografia di Abbas Kiarostami. Un artista poliedrico che ha disegnato un universo poetico e segnato la storia del cinema raccontando i volti dell'Iran.

"L’arte non è qualcosa che si crea ma è qualcosa che esiste già intorno a noi e attraverso gli strumenti creativi che abbiamo viene approfondita e raccontata". Così, qualche anno fa, Abbas Kiarostami rispose, in un grande teatro di Londra, alla domanda su quale fosse il ruolo della creatività nel cinema. Ecco forse in quella frase asciutta, di fronte a una platea abbottonata, il più decisivo dei cineasti iraniani aveva racchiuso il senso della sua ricerca: catturare la complessità della vita utilizzando un linguaggio che si muove a un ritmo essenziale poggiato sul racconto per immagini. Un viaggio che lo ha impegnato per tutta la vita, non abbandonando mai il suo Paese, l’Iran, attraverso cui ha descritto un universo poetico, personale e collettivo, che si è sbrogliato attraverso il cinema, la fotografia, la scrittura e la pittura.
Kiarostami è nato nel 1940 a Teheran da una famiglia di origine umile nel pieno dell’epoca Pahlavi, la dinastia reale che ha regnato sulla Persia dal 1925 fino alla Rivoluzione del 1979. In quegli anni si era appena chiusa la stagione del cinema muto che faceva da ossimoro allo scoppiettio rumoroso della città. Stava correndo una frenetica occidentalizzazione della società e l’universalità dell’esperienza di Kiarostami è frutto di quell’epoca. “Una mattina ci dissero che in città avevano aperto un cinema. A undici anni ci andai per la prima volta con la mia sorellina, era una proiezione americana a colori, con un attore con il nasone che era Danny Kaye. A metà film mi sono addormentato. Per molti anni abbiamo visto film americani in lingua originale, ma il primo che mi lasciò un segno fu un film con Totò che era diverso da tutto ciò che avevo visto fino ad allora. E poi Totò assomigliava a un mio vicino di casa. Allora, o meglio poi, ho capito che esistono due tipi di cinema: un cinema realistico e uno molto emozionante ma lontano dalla realtà. Mi sono avvicinato al cinema reale".
Kiarostami da ragazzo si iscrive alla Facoltà di Belle Arti di Teheran perché desidera diventare pittore ma non riesce a dare forma alle sue idee e inizia a lavorare come grafico pubblicitario illustrando racconti e fiabe per bambini. L’incontro con la letteratura per l’infanzia disvela un linguaggio comune tra il regista e i bambini che riempiranno tutta la sua cinematografia. Per questa ragione, prima di approdare al cinema, si dedica agli spot pubblicitari delineando un modo inedito di girare che si poggia sull’improvvisazione e senza il ricorso agli strumenti artificiosi della pubblicità. L’incontro con il cinema avviene in maniera naturale dopo l’esperienza nella pittura e nella pubblicità artistica che segneranno il suo universo creativo: diventa cineasta infatti come conseguenza a quel bisogno irrinunciabile di sperimentare. “Mia madre raccontava sempre che a quattro o cinque anni ero curioso di sapere cosa succedeva tra le persone, tra uomo e donna, non nel modo in cui potreste pensare, ma cosa fossero davvero le relazioni. Il cinema si può imparare a farlo, ma non credo che tutti i cineasti bravi siano quelli che fanno cinema. I veri cineasti si possono trovare tra chi fa altri lavori, serve la curiosità che porta a guardare. Il cineasta è cineasta per ventiquattr’ ore, anche il suo sonno è diverso, i suoi problemi sono differenti”.
La sua carriera come cineasta inizia nel 1970 con il cortometraggio intitolato il pane e il vicolo, nel quale racconta la storia di un ragazzino che al ritorno da scuola deve affrontare un cane randagio. In questo lavoro d’esordio affiora la capacità del regista di raccontare emozioni forti come la paura in un linguaggio essenziale. Kiarostami dichiarerà in quegli anni che il cinema era un pertugio attraverso cui attingere da quel fondo inesauribile di immagini che è la realtà. Quattro anni più tardi dirige il suo primo lungometraggio, il Viaggiatore ovvero un ragazzino di dieci anni, Ghasem Jola'i che desidera in ogni modo assistere alla partita di calcio della nazionale iraniana a Teheran e per riuscirci dovrà districarsi in astuzie e inganni di ogni genere. Mossafer è il titolo in lingua originale e la sua poesia è una realtà catturata e sospesa nell’istante fotografico. Ghasem cresce con quel senso dell’arrangiarsi che accomuna la strada all’adolescenza in una costellazione di visi anneriti dal sole e di occhi pervasi da una nostalgia lontana. L’influenza del Neorealismo Italiano e della Nouvelle Vague francese sugli autori in cerca di un cinema più vicino alla realtà, porta registi come Abbas Kiarostami e Mohsen Makhmalbaf a un punto di svolta nella giovane cinematografia iraniana.
Il primo febbraio 1979, il religioso sciita Roullah Khomeini, sbarca all’Aeroporto Internazionale di Teheran. Ad aspettarlo ci fu una distesa chilometrica di persone che nelle settimane precedenti avevano sostenuto la rivoluzione contro lo scià Mohammad Reza Palavi. Questa data ha sancito l’inizio della Repubblica Islamica dell’Iran trasformando la società secondo i principi della religione islamica che adotterà una chiusura netta verso l’influenza del mondo occidentale. Le trasformazioni in atto nel Paese investono anche il cinema: nel periodo immediatamente post-rivoluzionario i registi iraniani cominciano a girare in chiave sperimentale e poetica. Una cinematografia connotata dalla poesia e dai simbolismi, contaminata da autori di versi come Sohrab Sepehri e Forough Farrokhzad. Molti intellettuali e artisti decidono di allontanarsi dall’Iran per la censura imposta dalle autorità religiose. Kiarostami non lascerà mai la sua terra. Nel 1997 finisce di girare Il Sapore della Ciliegia che viene considerata tra le sue opere più decisive. Nella periferia di Teheran, il signor Badi vaga con la sua auto alla ricerca di una persona che possa aiutarlo a porre fine alla sua vita ricoprendolo vivo, al mattino seguente, nella fossa che si era scavato. Il regista mostra grande sensibilità nel trattare il tema della morte e allo stesso tempo celebra la vita in una cornice desolata, in una terra arida e aspra che accompagna la storia.
Mentre i suoi film varcano i confini dell’Iran e raccontano un Paese diverso da ciò che i mezzi d’informazione abitualmente diffondono, Kiarostami è in cerca di un nuovo mezzo espressivo per dare forma scritta alle sue immagini interne e incomincia a scrivere poesie. Nel 1999 da un verso di Sohrab Sepeheri intitola una pellicola molto importante per la sua cinematografia: Il Vento ci Porterà Via inquadra la vicenda di un uomo che arriva in un piccolo paese nascosto tra le montagne dell’Iran settentrionale e attende che muoia una signora anziana, malata da tempo, per poter osservare i misteriosi riti funebri del luogo. L’anziana grazie alle cure del villaggio torna in salute e tutto il racconto si lega attorno a una condizione di attesa: a fare da sfondo la vita del piccolo paese che scorre lenta e al contempo libera in un profondo legame con la natura circostante. Il Vento ci Porterà Via dipinge un mondo poetico, lievemente tratteggiato, in cui l’uomo con la sua complessa realtà intellettiva si fonde con la linearità essenziale e primitiva della natura.
Forse il senso della cinematografia di Abbas Kiarostami è da rintracciarsi in suo celebre film del 1990, Close Up che documenta una storia vera in cui un giovane disoccupato, Hossein Ali Sabzian, riesce a introdursi a casa di una famiglia benestante, fingendosi il noto regista iraniano Moshen Makhmalbaf, millantando la produzione di un film di cui la famiglia sarebbe stata protagonista. L’inganno viene scoperto e Sabzian viene portato in tribunale. Ai giudici che lo interrogarono egli disse che lo fece per il suo amore incondizionato per il cinema di Makhmalbaf e che aveva previsto che sarebbe stato smascherato ma aveva un unico desiderio che non lo fece mai desistere ed era quello di finire il film. Abbas Kiarostami fu colpito da questa storia tanto da interrompere la lavorazione di altri progetti che stava portando avanti in quel periodo perché voleva riprodurre quell’attaccamento viscerale di Sabzian alla vita tanto da non pensare alle conseguenze, con quella passione folle e irrazionale che lo accomunava ai bambini. E così Kiarostami è considerato tra i più grandi cineasti perché è stato capace di catturare i dettagli e universalizzarli nei suoi film, dipanando un universo personale attraverso cui dialogare con lo spettatore e con ciò che lo circonda. Una linea implicita ha collegato tutta la sua produzione: film, racconti, versi e fotografie sono il frutto di una poetica introspettiva che rende ogni immagine da lui curata unica, riconoscibile, evocativa della vita stessa nella sua primitiva semplicità e brevità.