Mario Vargas Llosa
 23/11/2022

Nessun paese ha sviluppato meglio della Francia l’arte di riconoscere il genio artistico straniero e di appropriarsene intronizzandolo e diffondendolo. Vedendo l’esuberanza e la felicità con cui i francesi celebrano i cento anni dell’autore di Finzioni, ho avuto in questi giorni la strana sensazione che Borges fosse stato compaesano non di Sarmiento e Bioy Casares ma di Saint-John Perse e di Valéry. Comunque, anche se non lo era, è giusto riconoscere che senza l’entusiasmo della Francia per la sua opera, questa non avrebbe raggiunto, almeno non così velocemente, il riconoscimento che, a partire dagli anni Sessanta, ha fatto di lui uno degli autori più tradotti, ammirati e imitati in tutte le lingue colte del pianeta.

Ho la civetteria di credere che, nell’anno 1963, sono stato testimone del coup de foudre o amore a prima vista dei francesi per Borges. Era venuto a Parigi per partecipare a un omaggio a Shakespeare organizzato dall’UNESCO, e l’intervento di questo anziano precoce e semi invalido, che Roger Caillois presentò con una retorica effervescenza, sorprese tutti. Prima di lui aveva parlato il sagace Lawrence Durrell, paragonando il Bardo con Hollywood, e dopo Giuseppe Ungaretti, che lesse con talento istrionico le sue traduzioni in italiano di alcuni sonetti di Shakespeare. Ma il discorso di Borges, in un francese pulito, nel quale fantasticava sul perché certi creatori diventano simbolo di una cultura – Dante di quella italiana, Cervantes di quella spagnola, Goethe di quella tedesca – e su come Shakespeare si era eclissato affinché i suoi personaggi risultassero più nitidi e liberi, sedusse per la sua originalità e raffinatezza. Giorni dopo, la sua conferenza all’Istituto dell’America Latina, oltre a essere molto affollata, attrasse una quantità di scrittori alla moda, tra i quali Roland Barthes. È una delle conferenze più brillanti a cui ho assistito. Il tema era la letteratura fantastica e illustrava con brevi riassunti di racconti e romanzi, di diverse epoche e lingue, i mezzi di cui questo genere si avvale più frequentemente per «fingere la realtà». Immobile, dietro la sua cattedra, con una voce timida come per chiedere scusa, ma in realtà con magnifica disinvoltura, il conferenziere sembrava avere nella memoria la letteratura universale e sviluppava le sue argomentazioni con tanta eleganza quanto astuzia. «È sicuro che questo scrittore viene dal paese dei gauchos?», esclamò uno spettatore meravigliato mentre applaudiva vivacemente. Borges aveva dato fine alla sua conferenza con un invito a effetto: «E ora decidete voi se appartenete alla letteratura realista o a quella fantastica». Sì, veniva dal paese dei gauchos, però non aveva niente di esotico né di primitivo, e la sua opera non ostentava colore locale. Aveva già scritto diversi capolavori, ma ancora era conosciuto soltanto da piccoli gruppi di devoti, anche nel suo paese, e i suoi racconti e saggi circolavano in edizioni poco meno che familiari. La Francia lo tirò fuori dalla catacomba dove languiva, proprio a partire da quella visita. La rivista «L’Herne» gli dedicò un numero memorabile e Michel Foucault iniziò il libro di filosofia più influente della decade Les mots e les choses con un commento borgesiano. L’entusiasmo fu ecumenico: da << Le Figaro» a «Le Nouvel Observateur», da «Les Temps Modernes» di Sartre a «Les Lettres françaises» di Aragon. E siccome in quegli anni quando la Francia legiferava in ambito culturale il resto del mondo obbediva, i latinoamericani, gli spagnoli, i nordamericani, gli italiani, i tedeschi, eccetera, hanno cominciato, in coda ai francesi, a leggere Borges. Così è iniziata la storia che culmina adesso negli squilli di tromba e nei fasti del centenario.

Estratto preso dal libro Mezzo Secolo con Borges Le Lettere, Firenze 2022.